Agli inizi del Novecento era conosciuto come “il teatrino degli orfanelli”, costruito all’interno del Brefotrofio di Milano dove ora si trova la clinica Macedonio Melloni. Dopo la seconda guerra mondiale l’orfanotrofio è stato chiuso e con esso anche il teatrino. Fino al 2003, quando, grazie alla sensibilità e all’intraprendenza del prof. Guido Moro, primario del reparto di patologia perinatale, e di una coppia di benefattori, quest’ultimo tornò a vivere con un nuovo nome “La Scala della Vita”. Per tradizione e vocazione, il teatro è molto legato al repertorio per i giovanissimi, tuttavia il suo cartellone oggi contiene una ricca programmazione anche per il pubblico adulto. Dal 2006 la direzione artistica è affidata all’attore e regista Stefano Bernini.
Non tutti sanno che prima di intraprendere la carriera teatrale, Lei ha fatto il medico-chirurgo, specializzato in ostetricia e ginecologia, presso lo stesso ospedale M. Melloni. Cosa l’ha spinta a lasciare uno dei mestieri più sicuri al mondo per il più incerto per antonomasia?
«E’ stato un processo graduale, anche se, in realtà, la professione del medico non l’ho abbandonata del tutto. Dirigo ancora uno studio dove mi occupo di alimentazione e omeopatia. Ho lasciato la carriera ospedaliera che per me è sempre stata troppo legata ai giochi politici e di alleanze».
Ciò nonostante, è tornato tra le stesse mura, ma come il direttore del teatro…
«In effetti, quando sono stato contattato dal dott. Moro, non lavoravo più qui. Egli aveva trovato questo teatrino, rimasto abbandonato per più di cinquant’anni, ed era riuscito a recuperarlo. Orgoglioso, voleva farmelo vedere e, sapendo che da anni mi dedicavo seriamente al teatro, chiedermi se me la sarei sentita di collaborare per riportarlo in vita. Ho colto la sua proposta come una grande occasione. Per due anni l’abbiamo gestito insieme a Roberto Brivio, fondatore del mitico gruppo “I Gufi“ degli anni ’60. Io mi occupavo del repertorio per i bambini, lui di tutto il resto. Poi Brivio è partito per altre mete e ho preso in mano tutta la direzione».
Come è avvenuto il suo incontro con il teatro?
«Per caso. Da liceale avevo frequentato un corso, ma quella breve esperienza non ha avuto seguito. Anni dopo, lavorando in quest’ospedale e cercando un corso di informatica per i medici mi sono imbattuto nel volantino di una scuola teatrale. Incuriosito, mi ero iscritto e da allora non ho più smesso».
La sua preparazione medica ha inciso in qualche modo sulla sua visione del teatro?
«Studiando la medicina, più che agli aspetti fisiologici, mi sono sempre interessato alla psicologia umana. Credo che questo si possa intuire nelle mie scelte sul palco».
Nel suo teatro lei fa un po’ di tutto: amministratore, regista, sceneggiatore e attore... In quale di queste attività si sente più realizzato?
«Nella regia. Le diverse fasi di realizzazione di uno spettacolo richiedono molta creatività e danno tante soddisfazioni. Paragonerei l’intero processo alla “nascita”, intesa anche dal punto di vista del mio percorso accademico».
Come riesce a lavorare sulle tematiche così diverse come fiabe per i bambini, nazismo, omosessualità?
«I temi sono spesso gli stessi. Diverso è il modo di comunicarli. Per esempio, i due nostri spettacoli, “La guardiana delle oche”e “Marcinelle”, pur essendo apparentemente diversi, trattano entrambi la questione dell’immigrazione. Nel primo in modo metaforico, narrando la storia di una giovane che parte per un paese lontano nella speranza di trovare il suo principe azzurro, viene tradita e trasformata in guardiana delle oche. Il secondo parla in un modo più diretto dei emigrati italiani della seconda metà del secolo scorso grazie ai quali, in qualche modo, è stato raggiunto il boom economico degli anni a seguire. In particolare, sono rimasto molto colpito dalla tragedia della miniera di Marcinelle in Belgio e, avendo a disposizione il teatro come il mezzo di comunicazione, mi sono sentito in dovere di diffonderla attraverso un testo teatrale».
E per quel che riguarda Rudolf Hös, il protagonista del suo ultimo spettacolo?
«Di solito, sia per un attore che per un autore, è molto più facile immedesimarsi nei panni della vittima. Io invece ho voluto immaginare il dramma del nazismo dal punto di vista di uno dei suoi artefici. In questo caso, di un funzionario, fra l’altro, abbastanza mediocre».
Nel 2008 assieme all’associazione “Il Sipario dei Bambini” siete stati insigniti della pubblica benemerenza del Comune per l’attività a favore dell’infanzia. A Lei, personalmente, cosa dà il lavoro con i bambini?
«Lavorare per loro, sentirli ridere oppure vederli stare in tensione per quel che accade sul palco crea una forte sensazione di legame. Sono molto sensibili alla sincerità, quindi la tecnica diventa meno importante del messaggio stesso. Ma ci stiamo anche impegnando per far sì che l’amore per il teatro diventi reciproco, sia attraverso gli spettacoli che tramite dei corsi e laboratori curati da esperti come Silvia Gelmini, Irene de Luca e altri».
Ha un regista preferito?
«Ne ho due. Il primo è l’argentino Coco Leonardi, che è stato anche il mio maestro. Nato come attore nella mitica Comuna Baires ed esule dalla dittatura militare del suo paese, egli basa il suo lavoro sul metodo Stanislavskij, quindi sulla sincerità – un concetto a cui tengo tantissimo - insegnando agli attori a vivere veramente i sentimenti dei personaggi. Un altro regista che stimo molto è il lituano Eimuntas Nekrosius».
Ogni regista sogna un testo che vorrebbe mettere in scena…
«Ce ne sono alcuni, tra cui “Il banchetto in tempo di peste” di Pushkin. Lo trovo un testo di grande forza e potenzialità».
Secondo Lei, la gente oggigiorno ha bisogno del teatro?
«Ha bisogno di verità. E se riesce a trovarla attraverso il teatro, ha bisogno anche del teatro».